
L'aspirazione a lasciare la terra di origine per cercare lontano nuove risorse è almeno da mille anni la caratteristica prima del lucchese.
Fino dalla metà del Cinquecento l'emigrazione risultò una logica conseguenza dello sviluppo economico raggiunto dalla città grazie alla produzione di sete raffinatissime e alla crescita delle capacità finanziarie acquisite dai cambisti e prestatori di valuta. L'attività di questi ultimi, sviluppatasi vertiginosamente dall'undicesimo al quattordicesimo secolo con il passaggio da Lucca di pellegrini, mercanti e soldati, sfociò in prestiti a Papi e regnanti e nell'istituzione di uffici cambiari in molte città (nel sec. XII solo a Genova se ne contavano più di cinquanta). L'esportazione di manufatti di seta trovò una forma di associazione nelle compagnie, che lucchesi di origine nobile o borghese costituirono con regolari contratti, impegni, ripartizioni di lavoro e di rischi. Numerose famiglie svolsero la loro attività nelle più attive città italiane. e nei maggiori mercati europei come le fiere della Champagne: Importavano materie prime dalla Sicilia e dal Medio Oriente e trasferivano e manufatti via terra o via mare, facendosi accompagnare da uomini fidati e da specialisti. Avevano agenzie stabili in molte città e seguivano con attenzione l'andamento delle situazioni politiche e dei mercati, pronti a recarsi in caso di necessità in paesi anche lontani. Non conoscevano ostacoli nel presentare il loro prodotto, sapendo di poter contare sulle sue insuperabili qualità. Impegnavano inoltre i capitali in prestiti e nell'acquisto di materie prime, allargando la propria sfera di influenza dove il movimento di danaro e di merci era continuo. In molte città acquistarono la proprietà di abitati, che destinarono solo ai conterranei e che furono utilissimi per la conduzione degli affari ed anche per la trattazione di questioni politiche. Queste minuscole nationes lucenses costituirono i centri verso cui la diaspora mercantile trovò i suoi punti di appoggio e dove l'emigrazione lucchese, nella massima parte temporanea, si trattasse di mercanti o di gente del popolo o di religiosi, ritrovava lontano da casa una piccola Lucca.
La scarsità di risorse e la forte pressione demografica dei paesi di montagna imposero a tanti di cercare un lavoro lontano da casa, capace di soddisfare almeno una parte dei bisogni della famiglia.
Una forma di emigrazione, che per la sua peculiarità e le remote origini merita una collocazione a parte, è quella dei pastori. Legata alla produttività stagionale dei pascoli di altitudine e di pianura doveva rispettare le leggi della transumanza, che avevano date ben precise. Veniva praticata soprattutto nelle alte valli apuane ed appenniniche e da essa dipendevano la sopravvivenza e le condizioni di vita di molti paesi., come si può desumere da una petizione dei primi del sec. XVI giacente presso l'Archivio di Stato di Lucca.
Siamo nel 1512 e Lucca ha riacquistato da poco la Vicaria di Camporgiano in Garfagnana di cui facevano parte Metello, Brica e Camporanda, situati nella valle di Soraggio. Per uno smottamento del terreno il primo di questi paesi "è ruinato sino alli fondamenti" e gli altri due sono in procinto di subire la stessa sorte. Bisognerà quindi costruire altrove nuove case, con grave impegno economico delle popolazioni che, date le circostanze, chiedono al Governo della Repubblica di esentarle da ogni forma di gravezza. Ma la supplica contiene ben altro. Precisa che i luoghi posti a coltura "sono sterili e asperissimi", capaci di fornire a che lavora il fabbisogno familiare di soli tre mesi, e che gli abitanti, non avendo "alcuna entrata ne altro modo di vivere" vanno "ogni anno per le Maremme cum bestiami a procurarsi il vivere dove stanno otto mesi..". E conclude invocando la conferma del decreto con il quale il Duca di Ferrara, loro precedente Signore, esentava il bestiame che faceva i lunghi viaggi di andata e ritorno per le Maremme.
Dal Cinquecento in poi la situazione dell'Alta Garfagnana non si discostò molto da quella dei paesi sopra ricordati. Tale realtà, con le sue antiche consuetudini, rimase immutata fino all'alba del secolo XX e prova ne sia il gran numero di ovini (71765 capi e 24098 agnelli) censiti dallo storico Roncaglia di Modena in questa provincia nel 1847.
In fatto di emigrazione stagionale a cicli ben definiti (quattro mesi in paese ed otto fuori, da fine settembre a fine maggio)i pastori della Garfagnana e quelli della Media Valle del Serchio, della Lima e della Valleriana, peraltro molto pochi, furono gli anticipatori del vasto movimento di uomini che, a partire dal sec. XVI, presero a recarsi all'estero.
Le condizioni economiche, determinate in prevalenza dalla distanza dal mare, dall'altitudine e dal tipo di produttività del suolo, l'isolamento o i contatti con altra gente, la frequentazione dei mercati, in particolare di quelli che si trovavano oltre i confini della Repubblica, favorirono in modo diverso ed in tempi diversi l'affermarsi della mentalità migratoria che nell'Ottocento troviamo diffusa in molte famiglie lucchesi. A tali fattori si aggiungano le consuetudini di certi paesi (es. da Lucchio si cercava lavoro a Livorno andando a servizio nelle famiglie), le iniziative individuali dei più coraggiosi e la specializzazione in determinate attività, facilmente impiegabile all'estero, che molti avevano affinato tra le mura domestiche.
Fino alla caduta della Repubblica aristocratica (1799) quasi nessuno partì dalla Vicaria di Camaiore, notoriamente ricca di fertili arativi e di oliveti che, vicinissimi al mare, garantivano costanti raccolti perfino dopo le invernate molto fredde. La stessa cosa si può dire degli abitanti delle colline disposte intorno a Lucca lungo i Monti Pisani, le Pizzorne e nell'Oltreserchio, dove le numerose ville costituivano centri aziendali di prim'ordine.
La coltivazione della campagna, molto trascurata fino alla metà del sec. XV, era cresciuta fra il Cinquecento e l'Ottocento in maniera considerevole, fino a costituire un raro esempio di efficienza per il sistema di irrigazione ed il doppio raccolto fornito ogni anno. Nel 1758 la popolazione delle Vicarie e delle Sei Miglia (circondario di Lucca), con un aumento progressivo aveva raggiunto le 128.112 unità, ventimila in più di quelle del sec. XV. La città, invece, pur tendendo ad una certa contrazione demografica, continuava ad essere un attivo centro commerciale, specie per il mercato dell'olio. Il livello di disoccupazione era relativo e nessuno, eccetto i negozianti, gli addetti ai trasporti e gli artisti, pensava di trasferirsi fuori delle Mura.

La vicenda emigratoria della Lucchesia
di Valerio Cecchetti
In occasione del trentacinquesimo anniversario dell'Associazione Lucchesi nel Mondo, desidero raccontarne la storia, inquadrandola nell'ambito della vicenda emigratoria locale.
L'emigrazione lucchese ha origini remote, perché l'andar per il mondo in cerca di una vita migliore è sempre stata una caratteristica di questa terra. Non la ricordo come storico, perché non sono uno storico, ma in forma piana, senza pretese, così come avveniva un tempo, quando si raccontavano le gesta dei paladini di Francia, le vicende più o meno piacevoli di amici o conoscenti, le loro aspirazioni, d'inverno d'intorno al grande focolare o nelle grandi aie delle corti alla conclusione dei raccolti estivi. Allo stesso modo l'ho raccontata pure ai lucchesi emigrati, durante i nostri incontri e a quanti mi intervistavano all'estero per avere notizie su quella nostra emigrazione tanto antica e così diffusa in ogni angolo della terra.
La vicenda è durata complessivamente quasi un millennio e si è esaurita ai tempi nostri, quando anche la Lucchesia, per ironia della sorte, è diventata terra d'immigrazione. Essa comunque, attraverso i secoli, lascia intravedere un senso unitario, nella successione dei tempi, sia pure con molteplici varianti per motivazioni sociali, economiche e culturali.
Nel corso della sua lunga storia sono spesso emersi personaggi importanti e famosi, sia durante il lungo periodo della Repubblica Lucchese, sia dopo l'Unità d'Italia.
Di molti di loro ho sentito parlare a lungo dall'Avvocato Francesco Massei, discendente da antica famiglia patrizia lucchese, uno dei soci fondatori dell'Associazione romana dei Lucchesi nel Mondo. Insegnava storia dell'emigrazione italiana all'Università di Padova: riservava l'ultima lezione del corso accademico all'emigrazione lucchese e, riportando l'aneddoto di Cristoforo Colombo che giunto in America incontrò un lucchese che vendeva statuine di gesso, concludeva: "Se consideriamo che fin dai tempi dei Vichinghi, in Groenlandia a riscuotere le decime per i Papi erano i Lucchesi, potrebbe essere non troppo azzardato pensare ad una presenza lucchese molto antica nelle Americhe, tenendo presente che… dalla Groenlandia alle foci del San Lorenzo… il passo è breve! A voi, che siete giovani, il compito di approfondire questa tesi". E spesso soleva ripetere: "A Lucca è mancato un aedo che cantasse le sofferenze, le avventure, le fortune e le gesta della sua gente".
L'emigrazione lucchese ha origini remote. Di essa si parla da quando la Lucchesia fu uno Stato libero ed indipendente con Lucca città capitale. Nel Medioevo apportò un aiuto determinante allo sviluppo ed alla crescita dello Stato, piccolo per estensione territoriale ma temuto e rispettato dalle grandi potenze del tempo. I lucchesi, emigrati nelle principali città italiane e straniere, coinvolti in attività commerciali e finanziarie, affidandosi solo alle personali capacità di lavoro ovunque apprezzate, consentirono, nel tempo, anche la stessa sussistenza delle famiglie lontane.
La Lucchesia, infatti, era una terra di colline e di montagna che esigeva molta fatica e dava scarsi raccolti; il terreno di pianura era in gran parte paludoso e soggetto a frequenti inondazioni. Non vi erano ricchezze nel sottosuolo, non esisteva il latifondo, che avrebbe potuto sfamare le famiglie che lo lavoravano; la proprietà terriera era frazionata in piccoli appezzamenti che venivano sfruttati al massimo ma che rendevano sempre scarsi raccolti. La popolazione era densa più che altrove, le famiglie erano di tipo patriarcale e molti erano i loro componenti. Il loro alimento, in montagna ed in collina, consisteva in polenta di neccio, necci e castagne cotte; in pianura zuppa di fagioli, farinata, ed in seguito, polenta di gran turco; non c'era veramente pane per tutti.
Gli inizi della vicenda emigratoria si legarono in particolare all'industria della seta, apportatrice di ricchezza e splendore alla città. La produzione ed il commercio dei manufatti serici si svilupparono non solo in Patria ma anche all'estero, con il coinvolgimento di operai esperti, orafi, disegnatori e battiloro. Partirono anche i rappresentanti delle famiglie nobili e mercantili, che si raggruppavano nelle principali città europee dando vita a comunità chiamate Nationes Lucenses (quasi le antesignane delle associazioni Lucchesi nel Mondo di oggi!). Queste comunità crescevano intorno ad una chiesa dedicata al Volto Santo, la sacra immagine venerata a Lucca, ed avevano un ospedale dove operavano medici propri, infermieri e personale vario fatti giungere dal piccolo Stato, a disposizione dei concittadini che ne avessero bisogno. L'ospedale serviva anche come punto di riferimento e di appoggio per coloro che erano di passaggio per ambascerie politiche, per seguire i commerci ed i traffici finanziari.
Come abbiamo visto, molti lucchesi emigravano al seguito dei rappresentanti delle famiglie nobili e di governo per seguire le imprese mercantili e finanziarie.
Durante un periodo non molto lungo(1530 - 1570) a questa emigrazione se ne sovrappose un'altra dettata da motivi religiosi, non meno importante per le conseguenze che produsse e di cui parleremo anche più avanti, quando tratteremo delle Associazioni di Ginevra e di Bruxelles.
A Lucca molti componenti di famiglie nobili e di Governo, e con essi un numero rilevante di semplici cittadini, avevano aderito al calvinismo: il Governo della città, che rimase sempre in mano ai membri cattolici delle più importanti famiglie, coprì gli esponenti convertiti al calvinismo nei confronti della Curia Romana che suggeriva con sempre maggiore insistenza la costituzione, anche a Lucca, di un tribunale dell'Inquisizione. Quando non poterono più far fronte a tali richieste, per salvaguardare la vita dei loro familiari, ma anche la stessa libertà ed indipendenza dello Stato lucchese, procedettero contro di loro condannandoli all'espatrio immediato ed alla confisca delle loro proprietà. In realtà i beni messi all'asta furono riacquistati dalle stesse famiglie, che fornirono ai parenti condannati a lasciare la città danari più che sufficienti ad impiantare all'estero succursali delle imprese mercantili di famiglia. Grazie a questa intuizione della classe dirigente lucchese, a differenza dei molti esuli italiani che avevano lasciato le proprie patrie senza mezzi, perseguitati dall'Inquisizione, i fuoriusciti lucchesi andarono fin da subito ad occupare posti di rilievo nelle elite delle loro nuove città di residenza (Ginevra, Lione, Brugge e molte altre), contribuendo al loro sviluppo economico, finanziario e, non ultimo, intellettuale. Fra tutti un esempio:Ginevra. Questo, prima della riforma di Calvino, era un piccolo borgo di seimila abitanti, gli italiani che ne avevano la cittadinanza erano ottanta, ma il loro numero aumentò notevolmente all'accorrere degli eretici cacciati dall'Italia. Qui giunsero anche i lucchesi convertiti alla nuova religione che, spalleggiati dalle loro famiglie, avviarono floride imprese commerciali e finanziarie; tra questi ricordiamo i Balbani, i Burlamacchi, i Cenami, i Calandrini, i Diodati, i Micheli, i Minutoli, i Rusticucci, i Simoni, i Turettini, i Massei. Molti di loro si affermarono nel loro campo di attività. In quegli anni cominciavano a sorgere diverse interpretazioni del Calvinismo, avversate in Ginevra. Coloro che dissentivano dall'originale interpretazione dovevano abbandonare la città, come accadde a Simone Simoni, docente di medicina all'Università di Ginevra, che fu costretto a emigrare in Polonia dove divenne medico personale del Re Jachelloni di Cracovia. Chi invece si adeguò, come fecero altri lucchesi, ottenne in quella città benessere economico ed influenza politica: tra questi ricordiamo Elia Diodati, avvocato al parlamento di Parigi ed Ambasciatore di Ginevra presso la corte di Francia e Giovanni Diodati, compilatore di una delle migliori traduzioni della Bibbia in italiano e la Storia del Concilio di Trento. I Turettini, un'altra importante famiglia lucchese in Ginevra, furono magistrati e teologi; Giovanni Alfonso Turettini, teologo, sviluppò teorie liberaleggianti che permisero alla città, prima di stretta osservanza calvinista, di accogliere nel proprio seno e di proteggere qualsiasi esiliato politico o religioso.
L'Università di Ginevra, la famosa Accademia, accolse tre grandi personalità di origine lucchese: Gian Luigi Calandrini, matematico e filosofo, il già citato Giovanni Alfonso Turettini e Gian Giacomo Burlamacchi, maestro del diritto naturale, nato a Ginevra nel 1694 da Gian Luigi, membro del Consiglio dei Duecento. Nel 1714, dopo splendidi esami, fu ammesso all'Ordine degli avvocati ma la sua vocazione era l'insegnamento e nel 1720 fu nominato professore di diritto naturale, materia da poco istituita. Tale cattedra fu da lui mantenuta fino al 1740, quando si dimise per problemi di salute che lo condussero alla morte nel 1742. I suoi studi furono stampati negli Stati Uniti in sette diverse edizioni e suoi principi furono fissati nella dichiarazione di indipendenza americana: ricerca della felicità individuale, sovranità del popolo, legge suprema.
Verso la fine del Seicento, quando cominciarono a venir meno l'importanza commerciale e finanziaria della Repubblica e la capacità imprenditoriale delle grandi casate, si assistette alla parallela, progressiva riduzione di questo genere di emigrazione che si può definire guidata e protetta, ma non diminuì la necessità di lasciare la propria terra e di emigrare. Infatti troppo consistente era ancora il sovraffollamento e scarsissime erano le risorse a disposizione della popolazione. Ebbe così inizio una nuova emigrazione, all'interno della quale ciascuno doveva pensare a se stesso, senza contare più sull'appoggio e sulla guida del Governo e della grandi famiglie; questo nuovo tipo di emigrazione non riguarderà soltanto Lucca e la campagna circostante ma investirà la Media ed Alta Valle del Serchio ed in generale tutta la Garfagnana, la Versilia e la Val di Nievole, che economicamente continuavano a gravitare intorno a Lucca
Già dalla fine del Cinquecento contadini, braccianti e boscaioli si recavano stagionalmente all'estero nel periodo dell'autunno e dell'inverno, quando in Lucchesia cominciavano a diminuire i lavori nei campi e nei boschi. Le loro mete erano la Corsica, la parte meridionale della Francia, l'Algeria, la Tunisia per disboscare, scassare, piantare viti ed olivi. Quando iniziava la buona stagione tornavano alla loto terra con un risparmio di cento venti, duecento franchi che consentiva loro di acquistare una casa ed un piccolo campo da coltivare.
I figurinai
Si sente parlare, tra gli storici dell'emigrazione, soprattutto lucchese, di figurinai, di figuristi o stucchinai. Preferisco riferirmi a questa vicenda usando il primo fra questi termini perché è con questo nome che mi si sono presentati, non pochi, lucchesi che in Italia ed all'estero hanno svolto questa attività.
Quando si parla dell'emigrazione dei figurinai si parla di una vicenda del tutto particolare, unica al mondo. Ebbe inizio tra la fine del 1700 ed i primo del diciannovesimo secolo quando Lucca era ancora uno Stato libero; non interessò tutto il territorio lucchese ma soltanto una piccola parte ben delimitata nella Media Valle del Serchio e nella Valle della Lima. Sono quelle zone montuose, i cui piccoli, molteplici paesi, intervallati qua e là da macchie di faggi e foreste di castagni, sono arroccati sulle cime del versante meriodionale dell'Appennino. Se altrove si emigrava, in quegli anni, per trovare un lavoro più redditizio che garantisse la sopravvivenza e forse un minimo di benessere, da quelle zone si partiva per vendere all'estero, tra privazioni e sofferenze, ciò che si sapeva creare: le figurine di gesso.
Coreglia Antelminelli fu la "capitale" dalla quale si dipartì, nei secoli, il più consistente numero di figurinai, seguita da Montefegatesi; "capoloughi" furono Tereglio, Barga, Bagni di Lucca, Borgo a Mozzano e Pescaglia. Proprio a Coreglia esisteva una scuola, fondata dal Barone Carlo Vanni, dove si apprendeva a "gettare in stampo" con corsi regolari di disegno e di modellatura. Da quella scuola uscivano i formatori, i disegnatori, i modellatori di quest'arte tutta particolare.
La propensione artistica di questi artisti trovava alimento non solo nei racconti popolari ma in una certa cultura umanistica alla quale venivano iniziati fin da piccoli - d'estate, nelle giornate afose, all'ombra dei faggi, d'inverno al tepore del grande focolare - con le letture dei poemi cavallereschi,della Divina Commedia, dell'Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata. Ecco così che quella gente, che impensabilmente conosceva di Dante e del suo Viaggio, dei Paladini di francia e dell gesta degli eroi epici del mondo antico, una volta imparata l'arte del gesso sapeva ritrarre oltre ad animali ed in genere al bello, i personaggi della mitologia e della tradizione letteraria.
L"emigrazione dei figurinai subì, attorno al 1800, un forte incremento: si formarono delle Compagni composte d un "titolare" (padrone e maestro dell'arte) e da quatrro o cinque ragazzi apprendisti ai quali veniva insegnato il mestiere di formatore e di venditore. In un primo tempo si trattava spesso di componenti la stessa famiglia o al massimo di famiglie conoscenti abitanti nello stesso paese, poi, man a mano che il fenomeno si apliò richiedendo un sempre più elevato numero di giovani aiutanti, questi furono ricercati nelle famiglie povere e numerose di altri paesi.
In quel periodo erano migliaia i figurinai che ogni anni partivano alla volta dell'Europa del Nord e delle Americhe; le compgnie si moltiplicavano e si ingrandivno fino a dar vita a vere e proprie fabbriche, i cui proprietari si affermrono stabilmente mettendo da parte consistenti somme di denaro: fu il caso, ad esempio, di Zeffiro Poli di Bolognana, dei Da Prato di Barga, di Angelo Sarti di Vetriano (Pescaglia) che, in ragione della sua riconosciuta bravura, ebbe addirittura dal British Museum di Londra l'incarico di riprodurre i fregi del Partenone.
Questi uomini, questi ragazzi, hanno lasciato le loro traccie non solo per tutte le nazioni europee, ma anche nelle città e nei luoghi più sperduti di ogni continente.
Le Balie
Il baliatico mercenario nacque come frutto di questa emigrazione stagionale in Corsica e nella parte meridionale della Francia. Ebbe inizio però poco oltre la metà dell'Ottocento e si sviluppo principalmente ad Ajaccio, Bastia, Nizza ed anche Parigi. "La Signora, allattando, perde la linea… se si trovasse una balia, non baderebbe a spese!". La voce corre e giunge anche in Lucchesia. Il trattamento che veniva offerto era allettante: oltre al vitto, ben diverso da quello abituale, si prometteva un salario doppio e anche triplo rispetto a quello dei mariti che in quelle stesse zone avevano lavorato come braccianti. Molte puerpere lasciavano così i loro neonati ed andavano ad allattare i bambini delle Signore.
Scrive Gian Mirola: "Qualche volta il baliatico fu imposto anche come condizione di matrimonio: ci sposiamo, tu fai a far da balia, io resto qui, al nostro figlio daremo il latte della Brunella (la mucca)"
Fu questa una forma di emigrazione amaramente necessaria per certi nuclei familiari e sempre dolorosa e fu anche criticata dall'opinione pubblica.
All'unità seguì un marasma politico sociale enorme: la nuova nazione si era formata con l'annessione di Stati più o meno grandi, Ducati, Repubbliche e Principati, che avevano usi, costumi, tradizioni diverse, profondamente radicate, e soprattutto differenti, e difficili da conciliare, problematiche, attorno alle quali lavorarono i primi Governi..
Tutto questo aggravò notevolmente la già difficile situazione lucchese. Mentre i risparmi accumulati stagione dopo stagione da braccianti e contadini non bastavano più ad acquistare casa e terra,ecco che cominciarono a giungere in Lucchesia voci di fortune accumulate nelle Americhe, che dettero in breve il via alla grande emigrazione che assunse nel volgere di pochi anni l'aspetto di un vero e proprio esodo. Accanto alle tradizionali mete europee si aggiunsero l'Argentina, il Brasile, il Venezuela, gli Stati Uniti ed il Canada ed anche, in tempi più recenti, l'Australia ed il Sud Africa.
Ecco così che di solito il maggiore dei figli rimaneva in famiglia per prendersi cura degli anziani, allevare la mucca per dare ai piccoli il latte e coltivare il pezzetto di terra. Gli altri, maschi ed anche molte donne, quando raggiungevano l'età giusta affrontavano l'avventura dell'emigrazione in gruppi più o meno numerosi, insieme ad altri giova ni del paese o dei paesi vicini, diretti nelle varie parti del mondo secondo le indicazioni che in quel momento dava l'agente spedizioniere. Accadeva così che familiari, fratelli, sorelle, zie e nipoti, partiti magari a distanza di alcuni anni, si siano fatti una vita in città diverse, in nazioni diverse, addirittura in continenti diversi. Successivamente costoro, ora non più dopo brevi stagioni, ma magari dopo decine di anni, rientravano. Delle fortune accumulate in quei tempi, soprattutto in Argentina ed in Brasile da molti nostri concittadini poi rientrati in patria, sono testimonianza le ville stile Liberty che tuttora si possono ammirare nelle immediata periferia della città e nelle frazioni dell'intera provincia
Quando i lucchesi si accorsero che quanto riuscivano a guadagnare all'estero, anche con i lavori più umili, era superiore di gran lunga al guadagno che la terra poteva produrre in Lucchesia, i rientri cominciarono diminuire notevolmente.
Tuttavia, a coloro che rimasero all'estero, mai venne meno il ricordo della terra e della famiglia lontana, per le quali conservavano infinita nostalgia. Continuo fu il pensiero rivolto ai cari lasciati in miseria, alla Chiesa, che era stata fin dalla nascita il centro della loro vita quotidiana; cominciarono così le rimesse rappresentate dagli "scudi", che costituirono una risorsa quasi miracolosa per le famiglie lasciate nel bisogno. E se la sorta aveva voluto che questi emigrati non fossero riusciti a raggranellare soldi sufficienti per spedirli alle famiglie, piuttosto ricorrevano ai prestiti pur di dimostrare di aver raggiunto una felice posizione economica.
Gli emigrati, italiani e lucchesi, erano partiti allo sbando senza alcuna protezione in un esodo che molti storici definiscono biblico e che riguardò complessivamente tutta la penisola. Dalla nascente Italia partirono dai 15 ai 18 milioni di persone, ed in questa cifra non sono compresi i clandestini, che furono molti.
Verso di loro lo Stato italiano fu latitante, indifferente. Soltanto nel 1901 venne istituto il Regio Commissariato per l'Emigrazione e si consentì la costituzione di comitati comunali. Si interessavano in quel tempo degli emigrati l'Opera Cattolica Bonomelli, particolarmente attenta all'emigrazione europea, la Compagnia dei missionari Scalabriniani, la Società Umanitaria di ispirazione laica e riformista e la Dante Alighieri che seguiva nelle grandi città i figli ed i nipoti degli emigrati insegnando loro la lingua e la cultura italiana accanto alle tradizionali materie scolastiche.
I nostri emigrati, in gran parte analfabeti, vollero dare, fin da quel tempo, ai propri figli la cultura che loro non avevano potuto avere, lavoravano per questo scopo ed a San paolo come a Buenos Aires, ho sentito raccontare di molti che avevano iscritto i loro figli alla Dante Alighieri appena nati, poiché i posti erano limitati. In quegli anni in Lucchesia si iniziarono a stampare alcuni giornali - Il Corriere della Garfagnana e L'Eco di Lucca - che furono i primi mezzi di collegamento costante tra le comunità di lucchesi all'estero e la terra d'origine.
Tra le due guerre mondiali l'emigrazione ebbe un forte rallentamento. Andarono all'estero un milione e trecentomila persone; a chi partiva, anziché cominciare finalmente a dar loro una mano, si chiese di diventare le avanguardie di un rinnovato spirito romano ed imperiale. A noi, bambini che frequentavamo le elementari, insieme agli esercizi ginnici ci insegnavano a cantare: "Sole che sorgi libero e giocondo sul colle nostro, i tuoi cavalli doma. Tu non vedrai nessuna cosa la mondo maggior di Roma!".
Il rinnovato Spirito Romano ed Imperiale ci portò all'immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, con i suoi lutti e le sue rovine. La tragedia sfociò in una forsennata lotta fratricida tra chi continuava a lottare per la grandezza di Roma sognata dal Fascismo e chi cercava la libertà e la giustizia sociale nei liberi governi anglo-americani, vincitori,e, non pochi, nel comunismo di Stalin.
Nel periodo che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l'emigrazione italiana ed anche della Lucchesia subì una notevole accelerazione ed in un quarto di secolo 8 milioni di persone ricominciarono, con la valigia di cartone, a percorrere le vie del mondo. Fu un'emigrazione a catena dove per stabilirsi in un altro Paese bisognava essere "richiesti" dalla Nazione ospitante o avere sul luogo parenti stretti o qualcuno che fornisse garanzie. Per questo fu un'emigrazione in un certo senso più facile.
Il 18 aprile del 1948 il popolo italiano scelse la democrazia, e la libertà, con un referendum popolare; guardò con simpatia i popoli occidentali d'Oltreoceano verso i quali l'emigrazione italiana aveva ininterrottamente mirato durante un secolo di storia unitaria e là si diresse con entusiasmo per raggiungere fratelli, sorelle ed amici.
Questa vicenda emigratoria durata quasi un millennio ha caratterizzato la storia di Lucca ed ha forgiato il carattere della sua gente. Se non si conoscono questi fatti non si può capire la storia della nostra città. I Lucchesi, percorrendo le vie del mondo, hanno portato ovunque la "lucchesità", un insieme di caratteristiche fra le quali spiccano l'operosità, l'inventiva, l'attaccamento alla famiglia, la religiosità e la devozione al Volto Santo. Gli emigrati hanno trasmesso tutto questo ai figli ed ai nipoti, e se qualche volta con il tempo questa eredità sembra assopirsi, basta un piccolo segno perché riemerga con intensità e dolcezza. Ciò è dimostrato soprattutto oggi quando vediamo arrivare nella nostra sede giovani desiderosi di conoscere le loro radici che gioiscono e ringraziano quando riescono a rintracciare tra archivi parrocchiali ed anagrafi comunali la storia dei loro padri.
Per illustrare l'attaccamento che i lucchesi emigrati hanno sempre nutrito per la loro terra di origine, e che hanno trasmesso ai figli fin da quando erano piccoli sono solito far parlare gli esempi, che più delle parole ci fanno comprendere con concretezza la dolcezza e la tenacia di quei sentimenti. Ne farò tre, di questi esempi, i cui protagonisti hanno raggiunto le più alte vette nei campi.
Il poeta Giuseppe Ungaretti nacque in Egitto da genitori lucchesi, il padre di San Concordio, la madre di Sant'Alessio; erano emigrati là per il taglio dell'istmo di Suez. Esiste ancora a San Concordio la Corte Ungaretti dove abitavano i suoi avi. La mattina del 15 maggio 1958 il Sindaco di Lucca conferì solennemente al poeta la cittadinanza onoraria ed io ero tra le numerose persone convenute per vedere ed ascoltare questa personalità così illustre e famosa. Avevo presente nella mia mente la poesia "Lucca", dove in pochi versi stringati, ma coinvolgenti, così sintetizzava l'emigrazione lucchese: "A casa mia, in Egitto, dopo la cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di questi posti. La mia infanzia ne fu tutta meravigliata. La città ha un traffico timorato e fanatico. In queste mura non ci si sta che di passaggio. Qui la meta è partire. Mi sono seduto al fresco, sulla porta dell'osteria, con della gente che mi parlava di California come di un suo podere…" Assistei, quella mattina, alla trasformazione di quella "meraviglia", suscitata in lui dai racconti della madre che "parlava di questi posti", in esultanza vera. Al tempo in cui vissero i genitori del poeta,i cittadini lucchesi andavano a lavorare lontano, ma ritornavano in famiglia appena potevano; quella gente parlava "di California come un suo podere", era là il loro posto di lavoro. Partivano con la stessa facilità di quando si va a lavorare nei campi, nelle officine, nei negozi, negli uffici e poi si torna a casa! Quella mattina, in Comune, il poeta prese la parola per ringraziare, iniziando con un delicato rimprovero, infatti esclamò: "Da settanta anni, oso dire, aspettavo questo giorno! Non gli onori, che sono il segno di una immeritata benevolenza, ma il riconoscimento - e la benevolenza volle essere solenne - il riconoscimento che prima di tutto io sono figlio di Lucca. Tutto - il - mio - sangue - è - lucchese" scandì "da origini che immagino remote, perché discendo da contadini. Non so quando venne al contadino la smania d'emigrare, ma avrà posseduto sempre le due nature, del nomade e del casalingo. La voglia di partire non si disgiunse mai nell'animo dall'ansia di sentirsi attaccato alla patria sua, anche quando, ne sono testimone, sia rampollo di generazioni succedutesi in lontananza… La fedeltà alle memorie, l'ossessione delle memorie, per cui un ricordo possa farsi eccessivo, leggendario sarà forse il carattere da cui indovinare il lucchese? l'ho visto vivere in Egitto. Era la mia stessa vita. L'ho incontrato in Brasile bottegaio divenuto re del caffè o della canna da zucchero, ed era per me egualmente persona di costumi così tenaci che ovunque si fosse recato a dimorare, non gli sarebbe mai potuto accadere di sentirsi sradicato dall'amato suolo, quantunque la nostalgia roda senza pietà…"
Monsignor Guazzelli nacque a Londra da genitori emigrati dalla Garfagnana. Al tempo in cui lo conobbi a Londra era Vescovo Ausiliare della Cattedrale di Westminster; sedeva al tavolo delle autorità, presenti molti conterranei, giunti dall'Inghilterra e dalla Scozia, per accogliere il Presidente della Provincia, il sindaco di Lucca, il Presidente della camera di Commercio, l'On. Biagioni, Sindaco di Castelnuovo di Garfagnana, il Presidente dei Lucchesi nel Mondo con alcuni membri del direttivo. In quell'occasione si gettarono le basi per la costituzione del circolo lucchese di quella città. Prendendo al parola per salutare i convenuti Mons. Guazzelli esclamò: "Finalmente anche i Lucchesi hanno la loro Associazione! Sarà utile ai nostri padri, ma soprattutto sarà utile ai figli ed ai nipoti che non si dovranno mai dimenticare delle loro radici. Per dimostrarlo racconterò quello che è successo a me. Ordinato sacerdote, volli andare da solo a vedere la casa che era stata dei miei genitori in Garfagnana. A Lucca presi il treno e scesi a Castelnuovo, sempre da solo, attraverso una ripida ed a volte scoscesa mulattiera, arrivai al paese e senza chiedere niente a nessuno andai diritto a quella casa". Dalla sala stracolma di gente si levò un'esclamazione: "Ma come fece??". Rispose: "Sin da quando stavo sulle ginocchia dei miei genitori ho sempre sentito parlare di quei posti nei più minuti particolari e quando vi sono arrivato era come se quei posti li avessi da sempre conosciuti."
Rudolph Vecoli nacque a Wallingford , Connecticut, da genitori originari di Camaiore; fu relatore al quinto convegno internazionale della nostra Associazione svoltosi a New York e Chicago nel settembre 1992 e trattò il tema "L'immigrazione in America - Stati Uniti" parlando della sua famiglia e di se stesso. Nel suo intervento racconto di come il padre avesse vissuto la classica vita dell'emigrante: in famiglia erano infatti quattro fratelli e non avevano abbastanza terra per tutti. Ancora ragazzo andò in Corsica come carbonaro, poi lavorò nelle cave di marmo di Carrara. Giunto negli USA verso il 1907 faticò nella "tracca" (ovvero nella costruzione della ferrovia) nei tempi in cui c'erano ancora gli indiani. Una vita di lavoro, senza riposo. Ma quando si ritirò in pensione tornò al suo paese e visse la vita del signore nei suoi ultimi anni. Lì morì e fu sepolto nel camposanto di Camaiore: l'emigrato era ritornato. La madre di Vecoli, più giovane, non conobbe il marito a Camaiore; era di famiglia benestante, il padre era infatti gardiacaccia della tenuta dei Borboni a Capezzano Pianore e lo chiamavano Gigi la Guardia. Durante la prima guerra mondiale, quando aveva una ventina d'anni, il suo fidanzato fu ucciso, e quando un paesano le disse che negli Stati Uniti c'era uno del paese che la voleva sposare, attraversò l'Atlantico, sbarcò a New York senza sapere una parola d'inglese ed arrivò col treno a New Btritain, in Connecticut, dove la sera incontrò il nuovo fidanzato mai conosciuto, che il giorno seguente divenne suo marito. "Così si faceva a quei tempi", chiosò l'oratore. Il prof. Vecoli fece il militare durante la seconda guerra mondiale e beneficiò di un programma di finanziamento di studi universitari per veterani. Scelse di dedicarsi allo studio della storia, per meglio comprendere quelle vicende che lui e la sua famiglia avevano vissuto. Infatti, insieme alle sue sorelle, si era trovato a vivere contemporaneamente in due mondi: "A scuola, al lavoro eravamo immersi in un mondo americano, fatto di baseball, movies, hot dogs; a casa un mondo tutto lucchese, dove la mia madre, una buona cuoca, preparava i piatti della tradizione lucchese: matuffi, necci, torte, baccalà colla polenta. I costumi di quella terra lontana facevano parte della nostra vita famigliare; per la Befana mangiavamo befanini, e nei momenti di riposo ci raccontava favole e la leggenda del Volto Santo". A quarantadue anni, Vecoli venne in Italia per la prima volta; giunse a Camaiore senza dare notizia ai suoi parenti, si fermò in un bar a chiedere informazioni ed uno, subito, gli andò incontro esclamando "Cugino Rodolfo!". Cominciò una processione trionfante da un parente all'altro, e tutte le volte erano brindisi ed abbracci. Egli era il primo della famiglia a ritornare, e ritorno l'anno seguente con la madre e la sorella. Era più di cinquanta anni che sua madre aveva lasciato quella terra. Quando nei parla il professore dice: "ritorno spesso a Camaiore; lì mi sento a casa".
Ho conosciuto personalmente tre di queste balie. Sono stato il loro medico curante per tanti anni fino a che non sono decedute, le ricordo ancora con ammirazione e con affetto. Esse hanno allevato con eccellenza le loro famiglie, curato con attenzione i loro vecchi, allevato con affetto i loro nipoti ed anche pronipoti. Ci potranno essere stati casi che sono finiti in modo diverso, ma io non posso criticare per quanto ho potuto constatare personalmente.
Questo spiega perché il lucchesi si trovi in ogni angolo della terra e ciò è stata una sorpresa anche per me, quando ho potuto constatarlo. Durante le visite ai nostri conterranei all'estero, nelle riunioni, accennando alle attività ed alle iniziative di altre associazioni esistenti altrove, spesso venivo interrotto da qualcuno che esclamava: "Io in quella città ho un fratello!". Non dimenticherò mai lo stupore che provai quando a Sydney il Presidente dell'Associazione, Alvaro Bianchi, mi disse di avere un fratello a Marsiglia ed un altro in California, o quando Orsi, originario del Compitese ed emigrato a Toronto mi indicò il nome di un fratello che viveva a Roseville in California. Come non ricordare poi i Paolinelli, i Menesini, i Lencioni, i Biagini, i Fanucchi, i Pieroni, che si erano moltiplicati in centinaia di famiglie e che si ritrovavano talvolta in una determinata città, provenienti anche da altri continenti per conoscersi per meglio e festeggiare assieme quella lucchesità che sempre li aveva accompagnati in tutta la loro esistenza.